legale

Domande utili

  • 1. Che differenza c’è a livello giuridico tra una coppia sposata e una coppia di fatto?

    Innanzitutto, chi è sposato non ha lo “stato civile libero” ed è tenuto, nei confronti del coniuge, a rispettare i doveri coniugali, elencati nel codice civile (per maggiori informazioni si veda la risposta alla domanda n. 2).
    Quanto all’aspetto dell’organizzazione dei redditi e delle risorse economiche della coppia, chi è sposato accede al regime patrimoniale della comunione dei beni, con la possibilità di scegliere, in alternativa, la separazione dei beni o di stipulare anche una diversa convenzione matrimoniale (per maggiori informazioni si veda la risposta alla domanda n. 5).
    Nel caso in cui uno dei due coniugi venga a mancare, l’altro fruisce inoltre di alcuni diritti stabiliti per legge, quali quelli ereditari, il diritto alla pensione di reversibilità e il diritto di succedere nel TFR del coniuge superstite.
    Quanto al caso in cui nascano figli, non ci sono differenze se la coppia è o meno sposata. Cambia, però, la modalità con cui viene registrata formalmente la filiazione in capo al padre (per maggiori informazioni si veda la risposta alla domanda n. 8).

  • 2. Quali sono i diritti e i doveri che discendono dal matrimonio?

    I coniugi hanno gli stessi diritti e doveri reciproci (art. 29 Cost. e 143 c.c.), senza distinzione di poteri e ruoli.
    L’elenco dei diritti e doveri è contenuto nelle norme del codice civile.

    L’art. 143 c.c. individua il dovere di fedeltà, di assistenza morale e materiale, di collaborazione nell’interesse della famiglia, di contribuzione ai bisogni della famiglia, di coabitazione.

    Dovere di fedeltà: va inteso non solo come esclusiva sessuale, ma anche come generale dovere di lealtà dell’uno verso l’altra, quindi come dedizione sia fisica che spirituale.
    Dovere di assistenza morale e materiale: è il dovere di supportarsi e proteggersi a vicenda, sia sotto il profilo morale, quindi nell’ambito affettivo, psicologico e del rispetto reciproco, sia sotto il profilo materiale, fornendosi reciprocamente aiuto concreto nella vita di tutti i giorni.
    Dovere di collaborazione nell’interesse della famiglia: è mirato alla soddisfazione delle esigenze della famiglia, pur nei limiti delle capacità e della personalità di ciascun coniuge.
    Contribuzione ai bisogni della famiglia: entrambi i coniugi sono tenuti a concorrere a soddisfare le necessità economiche della famiglia, nonché a mantenere, istruire ed educare i figli (art. 147 c.c.) in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la propria capacità di lavoro professionale o casalingo (art. 148 c.c.).
    Dovere di coabitazione: consiste nell’obbligo di abitare sotto lo stesso tetto, ma è anche riferito alla più ampia comunione di vita che caratterizza gli sposi.
    Al dovere di coabitazione è correlato il diritto/dovere di stabilire insieme il luogo in cui fissare la residenza familiare (art. 144 c.c.). I coniugi devono assumere questa decisione tenendo conto dei propri rispettivi bisogni personali, ma anche di quelli della famiglia (ossia dei figli).

  • 3. Ci sono altre possibilità per tutelare il legame di coppia, oltre al matrimonio?

    Per tutelare il legame di coppia, ci sono due possibili alternative al matrimonio previste dalla legge (L. 76/2016): la convivenza di fatto e il contratto di convivenza.

    Convivenza di fatto

    Si ha quando i componenti di una coppia, uniti da un legame affettivo sentimentale stabile, condividono la stessa abitazione (e non sono parenti, affini, sposati o componenti un’unione civile con l’altro partner o con terzi).

    La condizione di conviventi può essere formalizzata tramite una semplice dichiarazione presso il Comune di riferimento, che ha una mera valenza probatoria. È cioè uno strumento utile per dimostrare la convivenza e quando è iniziata (questo il link al modulo predisposto dal Comune di Verona).

    Dalla convivenza discendono alcuni diritti e alcune tutele.

    Tra questi, in particolare, c’è il diritto di visita, assistenza e accesso alle informazioni personali in caso di malattia e ricovero ospedaliero.
    Inoltre, in caso di cessazione della convivenza, il partner che si trova in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento, ha diritto di ricevere dall’altro un contributo alimentare proporzionato alla durata della convivenza, alle sue esigenze minime di sostentamento e alla capacità economica dell’altro.
    In caso di morte di uno dei due conviventi, infine, il superstite ha un diritto alla permanenza nella casa di comune residenza, anche se di esclusiva proprietà dell’altro, per un periodo di tempo che va dai 2 ai 5 anni.

    La legge tutela anche il convivente che presta la propria opera in modo continuativo e stabile nell’impresa del partner, senza essere inquadrato con un rapporto di lavoro o societario, riconoscendogli una serie di diritti quali la partecipazione agli utili e agli incrementi aziendali (c.d. impresa familiare).

    Contratto di convivenza

    I conviventi di fatto possono scegliere di tutelare il proprio legame stipulando un contratto di convivenza.
    Si tratta di uno strumento che deve essere redatto per iscritto e sottoscritto dalle parti. La firma deve essere autenticata da un notaio oppure da un avvocato e il contratto va poi trasmesso dal professionista al comune di residenza delle parti dove sarà registrato e conservato.

    Il contenuto del contratto riguarda le modalità con cui ciascuno dei conviventi contribuirà alle necessità della vita in comune, in base alle rispettive sostanze e alla capacità di lavoro professionale o casalingo. Le parti potranno anche eventualmente stabilire di applicare tra di loro il regime patrimoniale della comunione dei beni, previsto per il matrimonio (per maggiori informazioni si veda la risposta alla domanda n. 5).

  • 4. Le coppie dello stesso sesso hanno possibilità di formalizzare il loro legame?

    Le coppie dello stesso sesso, come quelle di sesso diverso, possono accedere alle tutele relative alla convivenza di fatto, così come stipulare un contratto di convivenza.
    Le coppie dello stesso sesso non possono unirsi in matrimonio. Possono però contrarre un’unione civile, che è invece preclusa alle coppie di sesso diverso.

    L’unione civile

    Questo istituto è stato introdotto dalla L. 76/2016 e interessa le persone maggiorenni, dello stesso sesso, che intendono formalizzare il proprio legame affettivo di coppia.

    L’unione civile si costituisce tramite una dichiarazione delle parti interessate di fronte all’ufficiale dello stato civile del comune prescelto, alla presenza di due testimoni.

    Con la costituzione dell’unione civile le parti acquistano gli stessi diritti e doveri reciproci. La l. 76/2016 opera un ampio rinvio, seppur con alcune esclusioni, a quanto disciplinato per le coppie unite in matrimonio.

    In punto filiazione, la l. 76/2016 prevede esplicitamente l’esclusione del rinvio alle norme sull’adozione e dunque esclude la possibilità di accedere a questo istituto da parte delle coppie unite civilmente.
    La giurisprudenza prevalente riconosce, però, anche per le coppie dello stesso sesso, la possibilità di adottare il figlio del partner (c.d. step child adoption).

    Quanto all’aspetto patrimoniale, la L. 76/2016 rinvia alle norme dettate per il matrimonio (per maggiori informazioni sul punto si veda la risposta alla domanda n. 5). Il regime automatico è, quindi, quello della comunione dei beni. Le parti possono però optare per il regime della separazione dei beni.

    Infine, quanto al regime successorio dell’unione civile, questo coincide con quello della famiglia matrimoniale. Alla parte dell’unione civile sono attribuiti infatti gli stessi diritti successori riconosciuti al coniuge superstite, così come il diritto alla pensione di reversibilità e di succedere nel TFR.

  • 5. Quale regime patrimoniale conviene scegliere: comunione o separazione dei beni?

    Dipende dalle esigenze della coppia.

    Il regime della comunione legale dei beni prevede che gli acquisti, i guadagni e altre poste attive, percepiti da uno solo dei due coniugi durante il matrimonio, entrino a far parte del patrimonio comune di entrambi in pari quota (con criteri e tempistiche diverse a seconda del tipo di bene).
    A questa regola sono previste solo alcune eccezioni con riferimento ai c.d. “beni personali” che rimangono in proprietà esclusiva del coniuge che li acquista (ad esempio gli effetti personali, gli strumenti necessari per la professione, i lasciti ereditari, eccetera).

    Dal punto di vista dei debiti, invece, la disciplina della comunione prevede che:

    1. Per i debiti personali di ciascuno dei coniugi, ognuno risponde con i beni di sua proprietà esclusiva. Se questi non bastano, in via sussidiaria, i creditori possono soddisfarsi anche sui beni della comunione, ma solo nella misura della metà del credito.

    2. Per i debiti della comunione, cioè quelli assunti nell’interesse della famiglia, quando contratti da entrambi i coniugi, i creditori possono soddisfarsi sui beni comuni. Se questi non bastano, in via sussidiaria, possono aggredire anche i beni personali di ciascuno dei coniugi, che rispondono ciascuno nella misura della metà del credito.
    Se il debito è stato contratto da uno solo dei coniugi, senza il consenso dell’altro, i creditori potranno rifarsi sul patrimonio comune e, in via sussidiaria, sul patrimonio personale del coniuge che ha contratto il debito integralmente e nella misura del 50% del credito sul patrimonio personale dell’altro coniuge.

    Il regime automatico è quello della comunione dei beni, per cui, in mancanza di scelta diversa, è questo che si applica.
    Se si vuole scegliere invece il regime della separazione legale dei beni, occorre, quando ci si sposa, esplicitamente optare per questo.
    È possibile anche cambiare regime dopo il matrimonio, ma occorre in questo caso avvalersi di un atto notarile.

    Il regime della separazione legale dei beni si rifà alle regole generali del diritto civile, sia per quanto riguarda le poste attive percepite da ciascuno dei coniugi, sia per quanto riguarda i debiti.
    Dunque, ognuno rimarrà esclusivo proprietario dei propri guadagni lavorativi e i beni acquistati saranno di proprietà comune solo se entrambi i coniugi hanno perfezionato l’acquisto, mettendo a disposizione il denaro necessario.
    Allo stesso modo, i debiti saranno imputabili ad entrambi i coniugi soltanto se tutti e due li hanno contratti.

    I coniugi hanno infine anche la possibilità, avvalendosi di un atto notarile, di stipulare una convenzione matrimoniale dal contenuto diverso dai regimi sopra descritti, che rispecchi in modo più personalizzato le loro esigenze, ad esempio includendo ulteriori categorie di beni dalla comunione, o vice versa.

  • 6. Sono validi i patti prematrimoniali?

    No, in Italia non sono validi.
    L’espressione “patti prematrimoniali” viene genericamente utilizzata, nel nostro ordinamento, per quegli accordi stipulati con l’obiettivo di (pre)stabilire le condizioni dell’eventuale futura crisi coniugale prima della celebrazione delle nozze, oppure anche successivamente (durante il matrimonio o dopo la separazione legale) ma prima che scadano i termini di legge per la proposizione del divorzio.
    Nel nostro ordinamento non ci sono disposizioni normative che esplicitamente si occupano di questo istituto, che è di derivazione anglo-sassone.
    Le pronunce giurisprudenziali che hanno trattato questo tema nel nostro Paese hanno quasi sempre ritenuto gli accordi di questo tipo nulli e quindi privi di effetti, perché il diritto all’assegno divorzile non è rinunciabile preventivamente, né viene ritenuto legittimo disporre in via anticipata di ciò che attiene allo “status” di coniugato/divorziato.

  • 7. Come si possono tutelare le coppie di fatto nell’ipotesi che uno dei due venga a mancare?

    In caso di convivenza di fatto, che si ha quando ricorrono i requisiti previsti dalla legge e già descritti nella risposta n. 2, il partner superstite non ha diritti successori sul patrimonio dell’altro.

    La legge gli riconosce, però, il diritto di permanere nella casa di comune residenza, anche se di proprietà esclusiva dell’altro o di entrambi, per un minimo di 2 e fino a un massimo di 5 anni.

    Un ulteriore strumento di tutela, cui è possibile ricorrere a prescindere dalla convivenza o meno con il partner, è quello di menzionarlo nel proprio testamento, nominandolo quale erede o legatario.

    La redazione del testamento deve ovviamente tenere conto dei requisiti di forma previsti dalla legge e dei diritti dei legittimari, ossia di coloro ai quali è riservata per legge una quota del patrimonio del defunto.

  • 8. Cambia qualcosa per la tutela dei figli, se i genitori sono o meno sposati?

    No, non ci sono differenze tra i diritti dei figli nati da coppia sposata e quelli dei figli nati da coppia non sposata.

    La riforma della filiazione intervenuta nel 2012/2013 ha infatti parificato lo stato di figlio, a prescindere dal fatto che sia nato all’interno o al di fuori del matrimonio, e ha dettato una disciplina unica e unitaria in materia di diritti e doveri del figlio nei confronti dei genitori e di responsabilità genitoriale (artt. 315 bis e seguenti del codice civile).

    Lo stesso vale anche in caso di divisione dei genitori, sposati o non sposati: i doveri dei genitori nei confronti dei figli non cambiano.

    Una differenza persiste, invece, tutt’ora, con riferimento alle modalità con cui viene registrata formalmente la filiazione in capo al padre.

    Se la coppia è sposata, infatti, la paternità viene automaticamente registrata in capo al marito, senza che sia necessaria una sua dichiarazione.

    Se la coppia non è sposata, perché si instauri lo stato di filiazione in capo al padre, occorre invece che il figlio sia riconosciuto, oltre che dalla madre, anche da quest’ultimo (art. 250 c.c.).

    Se ciò avviene al momento della nascita, contestualmente alla madre, il figlio sarà senz’altro registrato quale prole di entrambi.

    Se, invece, il padre decide di riconoscere il figlio in un momento successivo, occorre che la madre, in quanto prima dei due genitori ad avere effettuato il riconoscimento, sia d’accordo. Contro l’eventuale rifiuto, il padre può fare ricorso al giudice.

    Se il figlio ha più di 14 anni, peraltro, sarà quest’ultimo (e non la madre) a dover prestare eventualmente il suo consenso.

    Infine, in generale, in difetto di riconoscimento spontaneo, la filiazione può essere accertata a seguito di azione per la dichiarazione giudiziale di paternità (art. 269 c.c.).

  • 9. Al figlio si può dare anche il cognome della madre? Si può dare solo quello della madre o solo quello del padre? Cambia qualcosa se i genitori sono sposati?

    Attualmente, i genitori possono decidere di comune accordo di attribuire al figlio, oltre al cognome paterno, quello materno.

    Ciò vale sia che siano sposati, sia che non lo siano, purchè in quest’ultimo caso il riconoscimento del figlio avvenga contestualmente da parte di entrambi.

    È necessario che vi sia un accordo espresso dei genitori nel senso di attribuire anche il cognome materno: in mancanza di accordo, sopravvive infatti la generale previsione dell’attribuzione automatica del solo cognome paterno.

    Questa disciplina è il risultato di una pronuncia della Corte Costituzionale che, interessata della questione, ha sancito l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che prevedevano l’automatica attribuzione del cognome paterno, senza possibilità di deroga con aggiunta di quello materno (C. Cost. n. 286 del 2016).

    Non è allo stato possibile, nonostante l’eventuale volontà in tal senso dei genitori, scegliere di attribuire alla prole il solo cognome materno in luogo di quello paterno.

    Tuttavia, la questione è stata sottoposta nuovamente al vaglio della Corte Costituzionale che chiarirà nei prossimi mesi se è da considerarsi conforme o meno alla Costituzione l’attuale assetto normativo per il quale, in mancanza di accordo espresso dei genitori, debba essere attribuito al figlio il solo cognome paterno (e non i cognomi di entrambi). All’esito di tale valutazione, chiarirà poi la risposta in merito all’eventuale attribuzione alla prole del solo cognome materno, su accordo dei genitori.

    Gli effetti di questa pronuncia potranno avere dirette conseguenze sulla normativa in esame, modificandola o integrandola nel senso descritto.

  • 10. I miei genitori mi hanno concesso di vivere nella casa di loro proprietà. C’è un modo in cui possiamo reciprocamente tutelarci? Cambia qualcosa se vivo con il mio compagno/la mia compagna? E se siamo sposati?

    Nel caso descritto, assumono particolare rilevanza l’eventualità di una convivenza con il partner nella casa messa a disposizione dai genitori e l’arrivo di eventuali figli.

    Infatti, in generale, in caso di crisi della coppia, sia sposata che non sposata, se ci sono figli minorenni oppure maggiorenni ma non ancora economicamente autosufficienti, il Tribunale, a prescindere dal fatto che la casa sia in comproprietà oppure di esclusiva proprietà dell’altro, di norma la assegna al genitore che convivrà con i figli, determinando così il suo diritto di continuare a vivere nell’abitazione e il dovere dell’altro di trovare un’altra sistemazione.

    Che cosa succede invece se la casa è di proprietà dei nonni?

    Secondo l’opinione della giurisprudenza prevalente, a tutela della prole, potrebbe valere la stessa regola di assegnazione della casa al genitore convivente con la prole, a prescindere dalla sua titolarità o meno di un diritto di proprietà sul bene (SU n. 13603/2014; SU 20448/2014; Cass. 27437/2018).

    Per ovviare a questa eventualità, è senz’altro consigliabile che le parti, al momento della consegna del bene, stipulino dunque anche un patto scritto che, avuto riguardo alle indicazioni della giurisprudenza, tuteli entrambe, nel rispetto delle loro esigenze.

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